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OCCHI APERTI N. 36: AMORE CONFINATO

AMORE CONFINATO, UNA STORIA QUASI VERA
di Maria Cristina Piccoli

Chiuse a chiave il cassetto della sua scrivania, controllò se il computer fosse spento regolarmente così come il suo telefono risponditore e l’armadietto dietro la schiena. Tutto era ordinato e pulito, ma c’era nell’aria quel senso di dismissione che raramente si respira negli uffici, anche nel mese di agosto. Il calendario invece diceva che eravamo agli inizi di marzo di questo incredibile anno misterioso ed ostile. Accostò le tende e chiuse la porta di vetro che
la divideva dalla sala d’aspetto dello studio notarile, ora deserto, dove da alcuni anni lavorava come impiegata, centralinista, tuttofare a disposizione del notaio titolare, dei colleghi, dei clienti, dei visitatori. Da oggi sarebbe rimasta a casa per un po’ di tempo e non sapeva quando sarebbe tornata alle sue incombenze lavorative, a causa del Dpcm che imponeva la chiusura forzata dell’ufficio in cambio della possibilità di fruire dello smart working. Non sapeva bene cosa avrebbe effettivamente fatto d’ora in poi a casa, corredata di telefono e computer, ma non poteva
che arrendersi al Coronavirus che imperversava nel mondo, obbligando tutti al confinamento e ad un modo assolutamente nuovo di affrontare la vita. Chiuse il portoncino d’entrata al grande appartamento che ospitava gli uffici, scese le scale. L’ascensore non era fruibile come quasi ogni giorno, e consegnò le chiavi al portiere. “Arrivederci, Renato”. Lui le rispose con un gesto paterno della mano che lei non colse e disse: ”Buonasera signorina Paola, mi
telefoni se ha necessità.” I primi giorni trascorsero in una sorta di euforico riposo assoluto: dormiva fino a tardi la mattina, mangiava quel che trovava in cucina, telefonava con le amiche, accendeva la radio ad alto volume e si curava della propria persona in lunghe permanenze nel bagno. Le poche scorte alimentari finirono in fretta e Paola si costrinse alla spesa settimanale, munita di autocertificazioni e pazienza nelle code formate fuori dal supermercato
più vicino a casa sua. Si comprò quantità industriali di pasta, sugo di pomodoro, formaggi, latte, biscottini e cioccolata, ma soprattutto farina e lievito per la panificazione. Cominciò ad alzarsi presto al mattino come una fornaia di professione per impastare pane, pizze e focacce, le più improbabili e le meno riuscite. I suoi falliti esperimenti finivano in briciole sulle uniche due finestre del suo bilocale con angolo cottura, per la soddisfazione di una coppia di colombi
che si erano abituati ad aspettare che le finestre si aprissero per consumare l’abbondante colazione. I due le parevano grigi, li riconosceva dal battito delle ali quando planavano sui bancali e la facevano felice: sembravano salutarla ogni mattina e spesso anche la sera. Paola parlava con loro di sé ed essi parevano ascoltarla davvero con interesse.
L’appartamento, rigorosamente senza balcone, aveva un piccolo bagno cieco, mentre gli affacci davano sul vicolo posto nel retro del palazzo costruito ottant’anni prima nelle immediate vicinanze del centro della piccola città dove aveva deciso di vivere da sola, al momento, lontana dal paese dove stava la sua famiglia. Era stata una scelta
obbligata la sua, se mai avesse voluto sopravvivere all’apprensione smisurata dei genitori nei confronti
di una figlia che sfortunatamente aveva dovuto imparare a convivere con la disabilità. Il suo residuo visivo era limitante sì, ma le poteva permettere di vivere un’esistenza abbastanza soddisfacente nonostante tutto e ciò era quello che si era ripromessa di fare. Verso l’ora del mezzogiorno di quella mattina in cui la pioggia prometteva di cadere da un momento all’altro, le venne un improvviso desiderio di mangiare qualcosa di pronto e si decise
ad ordinare una pizza capricciosa, con prenotazione telefonica e bibita gratuita. Al diavolo, era stufa di cucinare, apparecchiare il minuscolo tavolo quadrato. Finalmente il campanello suonò e il suo trillo si diffuse in tutto il vano scala del condominio. Non era più assuefatta a quel suono e trasalì. Ah già, era la pizza! Si presentò controluce alla porta una sagoma alta con in mano il quadrato cartone bianco sorretto dai guanti in lattice di ordinanza.
Non riusciva a capire se avesse gli occhiali o di che colore potesse essere il giubbone che indossava.
Strano, il rider muovendosi faceva lo stesso rumore delle ali dei piccioni quando si avvicinavano ad uno dei davanzali. Sorrise e lui ricambiò. Per potergli dare i soldi del suo pranzo, lo fece aspettare sulla porta un poco di più del necessario e lui si mise a chiacchierare con la voce troppo roca per avere un tono naturale, ma forse era l’effetto smorzante della mascherina che indossava. Paola si schiarì la voce e solo allora si accorse che per tutta la mattina non
aveva parlato. Lui no, parlava, parlava e la pizza si freddava sul tavolo. “Grazie, ciao” e lui le rispose “A presto”. A presto? Era improbabile, le venne da pensare e confermò il pronostico dopo aver mangiato la pizza, che si differenziava dall’involucro di cartone soltanto per la presenza del pomodoro e di qualche altro ingrediente colorato. Venne l’ora del crepuscolo e Paola si sentì sola, triste e infelice.
Si attaccò al telefono, parlò di nulla con una delle sue amiche e compose il numero della pizzeria.
La quattro stagioni arrivò più tardi però, dopo due solleciti al locale. “Scusa, ma eri rimasta l’ultima cliente della sera e io mi chiamo Francesco”. Appoggiò il cartone, si mise a chiacchierare togliendosi gli occhiali, a distanza però. Parlarono a lungo, troppo a lungo fino a quando si ricordarono della pizza che era rimasta in paziente attesa con il risultato di diventare immangiabile. Si era vetrificata ai bordi e solidificata al centro. Decisero di mangiarla insieme, ridendo della faticaccia per riuscire a tagliarla in triangoli risultati comunque irregolari. Lei si sedette al tavolo, lui appoggiato al gocciolatoio del lavello, si lavò mani e viso e masticò stoicamente camuffando il disgusto. “Potevamo riscaldarla, tornava buonissima” provò a giustificarsi lui. “Non mentire, fa già schifo quando è calda” e risero dividendosi la birra in omaggio. Con buona pace di calorie e calibratura dei pasti, la situazione continuò nei giorni e nelle sere a seguire. Conobbero ognuno dell’altra i segreti nascosti ed intimi, dolori e frustrazioni, soddisfazioni e rinunce che, nonostante la loro giovane età, avevano dovuto attraversare; ma soprattutto esprimevano le loro speranze, i progetti al di là della situazione anomala e instabile in cui si erano trovati. Una sera lui arrivò con l’immancabile pizza, questa volta alla diavola, piccante e profumata e una bottiglia di vino rosso. “Questa sera sei mia
ospite” e per l’occasione si sedettero vicini sul divanetto, sentendosi in colpa per la trasgressione alle regole, ma attratti in maniera irrefrenabile. Non si fecero domande e nemmeno promesse, semplicemente si innamorarono. Nei giorni seguenti continuarono con le pizze dalle tradizionali alle più astruse. Bufalina, del pescatore, del boscaiolo, della casa, principesca, fino al calzone farcito a sorpresa dallo chef. Paola ogni giorno portava residui di pizza
sbocconcellati e cartoni, lattine e tovaglioli di carta con diligenza ai bidoni della raccolta differenziata.
Almeno così poteva illudersi di diminuire quel senso di gonfiore che provava durante la notte proprio alla
bocca dello stomaco. Più a sinistra sul petto però sentiva il calore della serenità che aveva nel cuore.
A casa sua Francesco ormai tornava di rado e una sera al padre comunicò di volersi trasferire. “Ma non la conosci!” In risposta un sorriso: “Nemmeno tu.”
Quella mattina Paola aprì le imposte della camera da letto: si profilava una giornata limpida e luminosa.
Le tornò in mente una vecchia canzone che cantava zia Carmela: - sole, pizza, amore, tuppetetà…

 

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