Dopo l'articolo favorevole alla sperimentazione delle fasce da braccio, apparso sulla newsletter del 18 gennaio u.s., pubblichiamo la replica, di segno opposto, scritta da Pericle Farris. Il tutto tratto naturalmente dal n. 36 della rivista Occhi Aperti attualmente in distribuzione.
Quando si incontra qualcuno per la strada con un bastone bianco, con un cane guida, o seduto su una sedia a rotelle o con due stampelle, il primo pensiero che ci viene in mente è quello di provare pietà. Forse oggi molto meno di ieri, ma purtroppo è ancora così. Poi ci viene da pensare quanto questa persona sia coraggiosa e quanti ostacoli ha dovuto superare per arrivare a quel punto. Per quanto riguarda le persone con disabilità sensoriale visiva la storia è stata lunga e faticosa. Infatti, il non vedente era identificato da un cartello che spesso portava al collo con su scritto “cieco” alla domenica mattina in prossimità di una chiesa o nei pressi di un mercato o di una grande piazza.
Mi ritorna in mente quando i non vedenti uscivano dagli istituti ancorati ad un cordino che un assistente teneva per indicare la strada e che quella lunga fila serviva a far ridere la gente che li vedeva. Oggi quasi tutti gli istituti sono chiusi, le classi speciali sono superate, le ragazze ed i ragazzi sono inseriti nelle classi normali e vivono nelle loro famiglie. Le associazioni, in particolare l’Apri, da anni si sono battute per far riconoscere i diritti di cittadinanza per tutte le persone con disabilità sensoriale visiva. Non abbiamo mai indossato simboli o fasce, abbiamo esibito i nostri bastoni, i nostri splendidi cani guida e, soprattutto, la nostra capacità di confronto e di persone normali con qualche piccolo problema. L’impegno fondamentale è stato quello di uscire, di farci vedere e notare senza timidezza e senza paura con la certezza che il nostro esserci non avrebbe creato problemi alle persone normali. Così è stato. La presenza di persone con disabilità in giro per paesi e città che avevano difficoltà a salire sui mezzi, ad attraversare le strade, a trovare i negozi necessari, ad inciampare in un marciapiede non a norma, a sbattere contro un palo messo al centro di un percorso pedonale ha permesso di sviluppare un percorso culturale che ci ha portato, soprattutto in Italia, a raggiungere gradi di autonomia, mobilità, indipendenza ed inclusione che ci sono invidiate dalle persone con disabilità degli altri stati europei. Tutto ciò è stato raggiunto senza fasce o simboli particolari che potessero identificare il disabile sensoriale visivo. Quando nella prima riunione del Consiglio generale della nostra associazione, che da territoriale è diventata nazionale, mi sono sentito proporre la sperimentazione di una fascia identificativa per le persone ipovedenti sono trasalito. Mi sono tornati alla mente tutti gli eventi disastrosi e deprecabili di quando venivano nel secolo scorso usate le fasce identificative che rappresentavano simboli di potere o di umiliazione e distruzione. Non entro nel merito perché ritengo che tutti ricordino e non dimentichino. Lo scopo di questa fascia dovrebbe garantire più sicurezza o più attenzione da parte delle persone in spazi chiusi o aperti.
Anche in questo caso mi sembra alquanto brutto, per non usare altri termini, che le persone si scansino solo per il segnale che si porta al braccio o che si rendano particolarmente disponibili sempre per quel solito simbolo. Io sono molto libertario e non voglio imporre nulla a nessuno. Sono assolutamente contrario al fatto che una associazione come la nostra investa il suo nome e i fondi che saranno indispensabili per sviluppare campagne di sensibilizzazione per lanciare la fascia con logo. Penso che i risultati raggiunti senza simbologie particolari, che hanno portato a ottimi risultati sulla mobilità, sull’autonomia, sulla scuola, sull’inclusione scolastica e lavorativa siano argomenti da proseguire e che possano richiedere investimenti finanziari e di tempo. Su questi bisogna lavorare sodo mettendo da parte inutili e, dal mio punto di vista, dannose sperimentazioni.