Mi ha sempre particolarmente affascinato, e chi mi conosce lo sa bene, lo studio della cecità, non tanto sotto gli aspetti psicologici, educativi ed assistenziali, quanto piuttosto sul versante più specificamente culturale, nel senso più ampio e completo del termine, ovvero come una dimensione particolare dell'essere, un modo diverso per catturare, percepire e valutare la realtà che ci circonda.
Si tratta, in realtà, di un approccio difficile e talvolta pericoloso in quanto, ogni volta che ci si addentra a sottolineare delle peculiarità o delle sensibilità proprie solo dei disabili visivi, si rischia inevitabilmente di essere accusati di non voler lavorare per l'integrazione e di considerare, in fin dei conti, i ciechi come dei "diversi".
Ciò ovviamente non corrisponde affatto al mio pensiero. Ritengo tuttavia alquanto interessante investigare profondamente le modalità di avvicinamento alla realtà sensoriale da parte di persone intellettualmente dotate le quali però non potevano disporre delle informazioni, quantitativamente prevalenti, che giungono al soggetto dalla vista.
Ecco dunque che, in questa prospettiva, una prima considerazione balza subito alla mente: l'espressione orale risulta infatti assai più congeniale a queste persone rispetto alla scrittura. Tutti sappiamo del resto che vi furono epoche storiche, remotissime per la nostra civiltà occidentale, ma ancora presenti in altri continenti, in cui la trasmissione orale del messaggio culturale, di generazione in generazione, rappresentava l'unico mezzo di passaggio comunicativo, sia sul piano religioso che storico-letterario.
Il passaggio anzi dall'epoca della tradizione orale, a quella in cui compare la scrittura, è considerato dagli storici così importante da attribuirgli il ruolo di aver fatto transitare l'umanità dalla cosiddetta preistoria alla storia vera e propria. Ebbene: per i ciechi possiamo serenamente affermare che la preistoria è durata fino al XIX secolo, fino cioè alla mirabile invenzione dell'alfabeto Braille
Con questo spirito oggi vorremmo ripercorrere la vicenda umana di un personaggio assolutamente emblematico: il poeta popolare sardo Melchiorre Murenu (1803 - 1854). In realtà diventa assai difficile classificarlo ed etichettarne l'opera. Fu poeta, improvvisatore, una specie di cantastorie, un severissimo fustigatore dei costumi ma anche, a modo suo, un rivoluzionario che si oppose fieramente ai grandi proprietari terrieri. Egli nacque a Macomer, da un certo Giovan Battista Ledda, il 3 marzo 1803. All'età di tre anni contrasse il vaiolo che lo condusse alla completa cecità. Questa era infatti, in quell'epoca, una delle cause più frequenti di perdita della vista, accanto al tracoma ed alle infezioni corneali. Nonostante fosse allevato in un ambiente sociale arcaico e più che arretrato, il giovane Melchiorre seppe supplire con la grande memoria e con l'eloquio fluente all'impossibilità di leggere e scrivere. Rimase infatti sostanzialmente analfabeta per tutta la vita. Oserei anzi affermare che il segreto del suo successo vada ricercato proprio nel tipo di società in cui si trovò a vivere, un ambiente in cui pochissimi sapevano leggere e scrivere mentre l'analfabetismo non rappresentava ancora un fattore emarginante.
Il suo bagaglio intellettuale si formò pertanto quasi esclusivamente attraverso l'ascolto di prediche e sermoni religiosi che egli, fin da bambino, amava seguire con attenzione e ripetere mnemonicamente, parola per parola, dopo le numerose funzioni a cui assisteva nella sua Parrocchia. Era infatti dotato di una memoria prodigiosa che gli consentiva di immagazzinare, magari disordinatamente, una enorme quantità di nozioni, notizie e testi sacri, immagini e citazioni bibliche. Sarà del resto proprio questa sua capacità straordinaria di ricordare, unita alla vivace fantasia improvvisativa e alla connaturata vena poetica, che lo porteranno a primeggiare, per molti anni, nelle gare fra verseggiatori di strada, nelle fiere, nelle numerose feste patronali e nei convivi privati.
La sua vita rimane dunque, ancora oggi, avvolta nella leggenda e nel mistero proprio come avviene, facendo le debite proporzioni, con le biografie degli antichi cantori dell'antichità e del Medio Evo.
Ignoriamo, tanto per fare un esempio, il motivo per cui scelse di farsi nominare Murenu, con il cognome cioè della nonna materna, anzichè con quello del padre Battista Ledda. Alcuni storici ricollegano questo soprannome alla carnagione scura del poeta, altri sostengono invece che l'appellativo venne adottato a seguito dell'arresto e della morte in carcere del genitore. Ciò avvenne quando il piccolo Melchiorre aveva appena dieci anni.
In ogni caso non vi è dubbio che i dolorosi avvenimenti della fanciullezza, la cecità, la povertà e l'arresto del padre, rimasero sempre fortemente impressi nell'animo del nostro artista condizionando, non poco, il tenore e il contenuto dei suoi componimenti. Ecco, a tal proposito, alcuni suoi famosi versi emblematici. Li riportiamo nella traduzione italiana anche se ci rendiamo ben conto di penalizzarne la loro sapiente metrica:
"Io, Melchiorre Murenu, possiedo tanti affanni
Quando ero bambino di tre anni, per mia crudele sferza
una infezione di vaiolo la vista mi ha rubato
e quando avevo dieci anni, per maggior pena e sventura
ho visto cadere mio padre nelle mani della Giustizia"
Quest'ultimo avvenimento fece poi precipitare la famiglia nella più nera miseria. La casa fu spogliata di ogni bene ed i fratelli dovettero lasciare la mamma per lavorare come servi. Tutto ciò indusse il Murenu ad esclamare in un suo famoso verso:
"Io, privo della vista, mi mantengo con le lacrime"
Il giovane non potè dunque imparare a leggere e scrivere, non solo a causa della disabilità che l'aveva
colpito, ma anche, non di meno, per effetto delle difficili condizioni economiche famigliari.
. L'analfabetismo rappresentava infatti una regola fissa a cui non potevano sfuggire i bambini poveri di allora.
Frequentando tuttavia assiduamente la Chiesa ed ascoltando avidamente i sermoni dei predicatori, che costituivano, in quel tempo, una fonte di istruzione e di godimento per gli ascoltatori paesani, seguendo attentamente la lettura e il commento dei testi biblici, si formò un piccolo patrimonio di quella erudizione, essenzialmente religiosa e mitologica, che costituisce, allora come oggi, il bagaglio culturale di ogni cantastorie o poeta popolare.
Si mise così a girare per le sagre paesane e le feste patronali, improvvisando, secondo che lo movessero, di volta in volta, la sua vena grottesca o il gusto per l'ironia salace o per la polemica di costume. Le tematiche più ricorrenti delle sue verseggiature, raccolte per iscritto solo successivamente alla morte da amici e biografi, si connettono strettamente con gli avvenimenti vissuti. Dalle assidue frequentazioni ecclesiastiche derivò probabilmente il pungente sarcasmo con cui era solito scagliarsi contro i vizi e le impudicizie di uomini e donne. I suoi versi risultano infatti pervasi da un senso arcaico della morale tradizionale, che non di rado si esprime violentemente attraverso invettive e insulti. Al giorno d'oggi questo aspetto delle composizioni mureniane può forse apparire a qualcuno piuttosto datato e fin anche antipatico. Si tratta, ad ogni modo, di un moralismo genuino e non artificiale, che affonda le sue radici nel profondo della cultura tradizionale sarda di quell'epoca.
A questo filone appartengono componimenti come "Alle isporcizias de Bosa", una sorta di lunga descrizione, ora divertita e sorridente, ora invece cattiva e velenosa, di tutti i difetti attribuiti agli abitanti di questo piccolo paese, accusati di essere immorali, sporchi, puzzolenti e quant'altro di peggio si potesse immaginare. Lazzi ed invettive dunque che di certo non fecero piacere ai poveri bosani. Si dice dunque che proprio questa serie di acri maldicenze siano state, come vedremo più avanti, la probabile causa della sua tragica fine. Oggi tuttavia la pista campanilistica del delitto sembra poco avvalorata dai critici moderni.
Assai più verosimile appare, al contrario, il movente di una vendetta personale, visto che il nostro non perdeva mai occasione di attaccare duramente, facendo allusioni alquanto trasparenti, donne e uomini di costumi piuttosto liberi. Molto note, in tal senso, furono le poesie "Ad una giovane libertina", "Capriccio amoroso" e "I facili amori di una libertina".
Secondo lo Spanu fu infatti proprio questa ultima canzone a costargli la vita. Leggiamone dunque qualche verso:
"Ti sei venduta il campo fiorito
per comprarti inutili cianfrusaglie
torna al bosco, se capisci dove hai peccato!"
Tutta la poesia, composta metricamente in sestine, si dipana lungo questi sentieri. Si racconta infatti la vita di una giovane fanciulla, povera ma onorata, che, attraverso la relazione con un uomo ricco, ora può sfoggiare abiti lussuosi e gioielli, senza però poter sfuggire alla condanna e alla dura riprovazione dei paesani.
Un altro famoso carme, intitolato "Acqua da una pozzanghera", contiene invece un acre rimprovero rivolto ad un nobile che trascura la moglie per una donna di cattiva reputazione. Il motivo si gioca sul parallelismo con un cervo che, ignorando l'acqua pura della propria fonte, preferisce abbeverarsi a quella fangosa di un pantano. Si può infine citare, su questo piano, un episodio significativo vissuto direttamente dal Murenu, nel quale il gusto per l'invettiva si intreccia con la riflessione ironica sulla cecità.
Ecco come ce lo riferiscono alcuni biografi.
Il poeta stava seduto, come di solito, ai piedi del campanile di Macomer. Passò di lì un ragazzino il quale, alludendo ironicamente alla sua minorazione visiva, gli chiese se avesse visto una formica arrampicarsi sul muro della torre. Peccato che il giovane, nella nomea popolare, non fosse considerato figlio di una madre virtuosa. Fulminante e sarcastica fu pertanto la pronta replica del poeta:
"Ti chiedo perdono e scusa tanto amico mio
ma questi scherzi a me non fare più
meglio sicuramente essere castigato da Dio
che cornuto e figlio di 'buona donna'"
Melchiorre Murenu è anche considerato, a giusto titolo, un paladino dei poveri ed un commosso cantore dei diseredati. Nessuno più di lui, che dovette sperimentare sulla propria pelle, e per tanti anni, la peggiore miseria, poteva comprendere profondamente le pene e i travagli di chi era costretto a condurre un'esistenza stentata, precaria e piena di affanni. Ciò che però maggiormente sorprende, nel leggere le sue amare riflessioni sulle condizioni dei deboli, è la contemplazione della povertà, intesa non tanto come dolorosa condizione umana frutto della mala sorte, del destino o degli incidenti, quanto piuttosto come conseguenza dei costumi corrotti e del cattivo funzionamento sociale. Il discorso mureniano sulla povertà resta pertanto sempre sotteso ed animato da un costante accento di protesta, non contro il fato o l'ingiustizia divina, ma contro le strutture stesse del suo mondo, di cui il povero risulta, nello stesso tempo, figlio e vittima insieme. Leggiamo, ad esempio, questi versi:
"I poveri di beni e di vestiti
per quanto siano astuti
sembrano sempre stupidi,
chi è povero ha per amici gli affanni
chi è povero ha per fratelli gli affronti".
Sorprende, di primo acchito, la modernità delle sue denunce contro le ingiustizie sociali, rispetto ai contenuti apparentemente arcaici e molto chiusi evidenziati dalle liriche sopra esaminate. Tale contrasto, in realtà, può stupire i lettori di oggi, che vivono immersi nei valori materialistici fatti propri dalla gran parte della cultura contemporanea. Essa ha infatti svalutato, o addirittura annullato, l'importanza della morale famigliare mentre, al contrario, si mostra assai più sensibile sui temi della giustizia economica e della discriminazione sociale. Murenu non poteva ovviamente prevedere questa evoluzione, o involuzione a seconda dei pareri, registratasi nel pensiero e nei gusti successivi. Egli è, e rimane sempre, un moralista a tutto campo e la sincerità del suo sentimento è anzi avvalorata dal fatto che il poeta non esiterà mai ad esporsi personalmente, sia su argomenti bene o male condivisi, almeno sul piano teorico, ma anche su questioni, come quelle sociali, ben poco apprezzate e valutate dall'etica tradizionale sarda di quei tempi.
Ecco dunque come stigmatizza il comportamento di quei magistrati che negano la giustizia ai poveri e che si fanno sistematicamente condizionare invece dai potenti:
"Se tiene qualche pretesa contro il ricco
i conti gli riescono tutti invano
e il giorno in cui li porterà in giudizio
rimane tre ore con la berretta in mano
e il Tribunale, per dispetto
gli fa vedere storto ogni diritto".
Ancor più famosa è l'amara quartina nella quale il poeta disapprova gli effetti prodotti dalla cosiddetta "legge delle chiudende", una norma che autorizzava i grandi proprietari terrieri , a partire dal 1820, a recintare i propri poderi, anche quelli che, da tempo immemorabile, erano destinati all'uso comune.
"Trancare", questo era il verbo dialettale utilizzato per indicare l'operazione di chiusura di quei terreni che venivano così sottratti alle greggi e ai cacciatori:
"Tanche chiuse a muro
all'afferra afferra
se il cielo fosse stato in terra
lo avrebbero anch'esso chiuso".
Per una società essenzialmente pastorale come quella sarda, l'operazione, promossa dal governo sabaudo, parve a molti come un affronto intollerabile. Ed eccolo anche nella poesia intitolata "Lo Stato di Sardegna":
"Ascolta i contadini dolenti
quando passano in queste tanche
piangendo i terreni persi
allienati per una bagatella
mentre in mano di pochi ricchi
pascoli ed abbeveratoi
e gli animali non sanno dove pascersi
ne vediamo nascere pochi e morire molti".
Quì il canto lirico nasce dal dolore, dall'affanno e dalla solidarietà. anzi, forse proprio da questo senso di sofferenza, vissuto sulla propria pelle anche a causa della cecità, il nostro bardo doveva sentir salire verso di sè il grido di tutti gli umili che considerava come fratelli, un grido che lui si sentiva moralmente obbligato a far risuonare nei suoi versi per una quasi istintiva vocazione a pensare alla propria voce come la voce di tutti i diseredati. E la voce pungente di un poeta, come storicamente è avvenuto in quasi tutte le comunità arcaiche, aveva una sua dignità ed autorevolezza riconosciute, una autorevolezza ben superiore a quella dei verseggiatori odierni, che scrivono spesso con un linguaggio criptico, ermetico ed astratto.
Melchiorre Murenu fu infatti amato e temuto, ricercato per la sua straordinaria abilità improvvisativa, ma, nello stesso tempo, avversato e odiato da chi diveniva il bersaglio delle sue strofe accuminate, che correvano poi, di bocca in bocca, per tutti i paesi del circondario. In ogni caso nessuno può ragionevolmente negare che abbia vissuto perfettamente integrato nella società del suo tempo, della quale ha saputo incarnare i valori e le aspirazioni più profonde. La cecità non gli causò pertanto nè emarginazione, nè tantomeno una diminuzione di prestigio ed autorevolezza.
La stessa fine tragica della sua esistenza rafforza ulteriormente tale constatazione e dimostra, oltre ogni dubbio, che egli era considerato un uomo come gli altri, nel bene e nel male. Si racconta, a questo proposito, che nella tarda serata del 21 ottobre 1854, Murenu si trovasse in casa di amici all'inizio della strada Su Rizzolu, che attraversa tutto il paese di Macomer per poi sfociare vicino alla chiesa di S. Croce.
Mentre egli si attardava, in quella casa, in compagnia dei conoscenti, così ci riferisce il Piras, vennero a cercarlo tre uomini dicendo che, nella locanda di una certa Caterina Fara, posta vicino al Municipio, lo attendeva il poeta Miloccu di Fonni. Questo "collega" era, allo stesso tempo, amico e rivale del Murenu e i due spesso si sfidavano in lunghe ed appassionate tenzoni in versi improvvisati durante le feste patronali. Questa forma di poesia popolare, ancor oggi presente in alcune zone remote dell'isola, era detta "a bolu", ossia "al volo".
Nonostante che il nostro avesse dichiarato che quella sera non aveva intenzione di rimanere sveglio troppo a lungo, i tre personaggi lo convinsero tuttavia a raggiungere il Miloccu. Una volta usciti, i suoi accompagnatori lo condussero invece verso un dirupo che stava oltre la locanda e, malgrado la resistenza feroce del Murenu, avvedutosi ben presto del cambiamento di percorso, a forza lo gettarono nel precipizio e lo uccisero. I responsabili di questo assassinio ovviamente non vennero mai scoperti a causa della pesante cappa di omertà che incombeva, ed in parte grava ancora, sulla società sarda. I soliti bene informati assicurano comunque che nessuno dei tre sicari morì naturalmente nel suo letto.
Vennero dunque anche loro ammazzati, negli anni successivi, da una sorta di giustizia privata e primitiva, tipica di quell'epoca e di quella cultura.
Terminò così la vita dell'Omero sardo ma la sua popolarità, almeno in ambito locale, non è scomparsa con lui a distanza di quasi due secoli. Ancor oggi viene infatti ricordato da molti cultori della letteratura in lingua isolana e portano il suo nome alcuni complessi corali e gruppi folkloristici attivi nella zona di Macomer. Il comune gli ha altresì intitolato una importante via del centro storico.
Il livello e il valore intrinseco dell'opera Mureniana può certo essere discusso. Egli rappresenta tuttavia un formidabile esempio di come la cecità non abbia rappresentato, nelle società tradizionali, un fattore di emarginazione come invece si tende spesso a voler far credere. Egli, del resto, pur non essendo nè ricco, nè potente, fu certamente un uomo ed un artista che seppe vivere da protagonista nel contesto storico di cui era figlio. I suoi versi aspri e taglienti ne riassumono anzi l'anima, le atmosfere più profonde e i sentimenti più autentici. ci si passi allora un ingenuo gioco di parole: Melchiorre Murenu fu davvero un poeta che "non guardava in faccia a nessuno", sia in senso fisico che figurato.
Marco Bongi