Amaurosi congenita di Leber
Come indica già chiaramente la denominazione "amaurosi congenita di Leber" ci troviamo di fronte ad una patologia rara che compare fin dalla nascita. Essa può dunque essere diagnosticata già attorno ai sei mesi di vita, quando cioè il bambino inizia a manifestare con chiarezza le proprie percezioni visive. Il termine "amaurosi" può apparire difficile ed oscuro: in realtà significa semplicemente "non visione" e quindi "cecità". La malattia fu descritta per la prima volta, verso la fine del secolo XIX, dall'oculista tedesco che le diede il nome. Essa consiste sostanzialmente in un mancato sviluppo delle cellule fotorecettrici presenti nella retina: i coni, che consentono la fissazione e il riconoscimento dei colori, e i bastoncelli che sono sensibili al movimento degli oggetti e al contrasto. L'incidenza sociale rilevata statisticamente dalla O.M.S. è di un caso ogni circa 30.000 nati. Siamo dunque a pieno titolo nel campo delle cosiddette patologie rare. Quali sono i sintomi che possono far sospettare la presenza dell'amaurosi di Leber? Siccome ci si trova a che fare con piccoli bambini le manifestazioni evidenziate non sempre appaiono univoche e specifiche. Un sintomo molto spesso presente è quello del "nistagmo" che consiste in un movimento incontrollato, rotatorio o a scatti, dell'occhio. A volte inoltre i piccoli tendono a sfregarsi o toccarsi frequentemente gli occhi allo scopo di provocare le tipiche sensazioni luminose dovute alla compressione della retina. Una diagnosi incontrovertibile la si può però ottenere solo sottoponendo il giovane paziente all'elettroretinogramma e ai potenziali evocati visivi. Il decorso della patologia è in genere fortemente progressivo. La cecità pressochè assoluta è raggiunta purtroppo quasi sempre entro l'adolescenza. L'amaurosi congenita di Leber è un'affezione di origine genetica a trasmissione autosomica dominante. Il gene difettoso è, nella maggior parte dei casi, quello contrassegnato con la sigla "RPE65". Non esistono attualmente terapie efficaci ma, dall'anno scorso, si sta sviluppando, fra Italia e Stati Uniti, uno dei primi progetti di sperimentazione per la messa a punto di una terapia genica. I ricercatori del CNR di Napoli, insieme a quelli operanti alla Pennsylvania University, hanno provato ad "infettare" alcune cellule retiniche di sei malati, con un virus-vettore che, appositamente trattato, portava con se un frammento di DNA da sostituire. I risultati, di cui parlarono a lungo i media nella primavera del 2008, sembrano incoraggianti. Recentemente, in un convegno nazionale organizzato dall'A.P.R.I. a Domodossola, il prof Alfredo Ciccodicola, componente dell'equipe che effettuò lo storico intervento, ha riferito che la cura genica è stata nel frattempo praticata ad altri trenta malati i quali, in maggioranza, hanno ottenuto significativi miglioramenti visivi. Il trattamento inoltre pare non abbia provocato alcun effetto collaterale negativo. Qualche speranza dunque si intravvede per il futuro.